Il ricordo del padre della sociologia in Italia
Ferrarotti fu deputato indipendente nel Parlamento durante la terza legislatura (1959-63), in rappresentanza del Movimento di Comunità fondato da Adriano Olivetti, di cui prese il posto dopo le sue dimissioni dalla Camera.
Ha insegnato in numerose università straniere, specialmente nordamericane. “Ma in Italia tutti collegano la parola sociologia al suo nome”. Ferrarotti è stato fra i fondatori del Consiglio dei Comuni d’Europa a Ginevra nel 1949; direttore dei progetti di ricerca sociologica presso l’Oece (ora OCSE) a Parigi nel 1958-59. Fra le sue opere principali, Sindacati e potere (1954); La protesta operaia (1955); La sociologia come partecipazione (1961); Max Weber e il destino della ragione (1965); Trattato di sociologia (1968); Roma da capitale a periferia (1970); La sociologia del potere (1972); Vite di baraccati (1974);Studenti, scuola, sistema (1976); Giovani e droga (1977). Fondatore, con Nicola Abbagnano, dei Quaderni di sociologia, ha diretto anche la rivista “La critica sociologica”.
Nominato direttore di studi alla Maison des Sciences de l’Homme di Parigi nel 1978, è stato insignito del Premio per la carriera dall’Accademia nazionale dei Lincei nel 2001 e del titolo di Cavaliere di Gran Croce al merito della Repubblica dall’allora presidente Carlo Azeglio Ciampi nel 2005. Era Membro della New York Academy of Sciences e presidente onorario dell’Associazione Nazionale Sociologi. Ferrarotti ha insegnato nelle università di Chicago, Boston, New York, Toronto, Mosca, Varsavia, Colonia, Tokyo e Gerusalemme. Generazioni di studenti ricordano le appassionanti lezioni di Ferrarotti all’università romana. Provocatori i suoi interventi sui diversi temi politici e sociali del paese dagli anni ‘60 fin quasi ad oggi. L’attività di ricerca e di studio di Ferrarotti è contenuta in una mole enorme di scritti che ha continuato a pubblicare fin oltre i 90 anni. Tra il 2019 e il 2020 l’editore Marietti ha pubblicato l’Opera omnia di Ferrarotti composta da sei volumi per un totale di 5mila pagine.
Riportiamo uno scritto del 2019 per un catalogo delle opere di Eva Fischer, pittrice, amica di Ferrarotti e di Adriano Olivetti. In questo testo, Ferrarotti collega l’arte e la pittura alla sociologia, alle emozioni che società e cultura intrinsecano da sempre.
“Fu nel 1974 che mi accadde di presentare alla Galleria Alfieri di Roma una mostra di Eva Fischer e ricordo distintamente come, all’epoca, i quadri di Eva Fischer mi colpissero a fondo per via della loro «semplicità» apparente. Scrivevo, infatti, che «i quadri di Eva Fischer si prestano a una lettura multipla: come una stratificazione archeologica. La loro semplicità inganna. È una semplicità apparente. Anche il colore, sapientissimamente dosato, incantevole, è lì per mistificare, cospira a creare equivoci presuntuosi. Bisogna trovare il coraggio, o la saggezza, di chiudere gli occhi e immaginare i quadri di Eva Fischer a bianco e nero, nella linea sicura e nitida di un disegno a matita. Ciò che poteva apparire come un’estasi solipsistica, irripetibile e unica, acquista allora la corposità di un tipo sociale.
Dal momento sociale il lettore attento non durerà poi fatica a ricavare l’imprevedibilità di un significato umano, il gesto di una quotidianità disarmata, ma essenziale. I quadri di Eva Fischer aiutano a comprendere la socialità dell’individuale».
È incredibile come, a circa trent’anni di distanza, in una intervista rilasciatami nella primavera del 2009, e pubblicata in appendice al mio libro Arte, scienza, società – verso una teoria dell’atto artistico (Roma, Verso l’Arte, 2009), Eva Fischer non solo non contraddica quelle caratteristiche essenziali della sua pittura, ma le approfondisca, anzi, fino ad accompagnarmi lungo un suo originale cammino, artistico e umano, al di là delle regole esterne di mode o di scuole particolari. Eva riconosce, infatti, con una modestia che è in qualche modo il sigillo della sua genialità, che «non sono capace di definire se qualcuno o qualche corrente pittorica mi abbiano influenzato, perché di arte ne ho vista tanta e ne ho ricevuto fior di emozioni. Stessa cosa per quanto mi ha dato la vita: ho vissuto a Parigi, a Londra, a Madrid; ho conosciuto grandi e mediocri artisti – personaggi noti ed importanti – e gente qualunque. Ho visitato centinaia di musei, gallerie, ma anche angoli nascosti o caratteristici di città e paesini; luoghi desolati o romantici e particolari atmosfere della natura.
La mia scuola sono quindi il mondo reale con tutte le sue sfaccettature ma anche la fantasia, nonostante gli ultimi mezzi di comunicazione limitino – per la loro rapidità – il desiderio di sognare e di immaginare la realtà.
Sono i colori ad influenzarmi. Cerco di affidar loro le mie impressioni. Spesso mi accorgo di iniziare una raffigurazione di vita con alcune tonalità, ma a quadro concluso, queste sono cambiate. Alle suggestioni di base si sono mescolate le sfumature di ulteriori impressioni, o addirittura eccitazioni, dettate dalla forza della natura.
I miei sono quadri sinceri nei quali cerco di esprimere il mondo che mi-ci circonda, con i suoi drammi, le felicità, ogni emozione bella o brutta, la gente felice od angosciata, appassionata o disillusa.
Secondo alcuni ho fatto parte della scuola romana del dopoguerra, ma forse la mia appartenenza a questa corrente è stata dettata dalla frequentazione con gli esponenti di questa rinascita artistica post-bellica. Spetta a chi guarda le mie opere collocarmi in un periodo o – se ritiene necessario – in un particolare frangente artistico.
I percorsi della mia strada sono gli oltre trenta “momenti pittorici”: dalle figure ai musicisti, dai paesaggi ai labirinti della memoria, dalle “semplici” conchiglie ai muri che raccontano, alla Shoah o alle città viste dal volo degli aerei; e tanti altri …
La mia è quindi scuola di vita ed i risvolti della natura sono i miei modelli e testimoni. Ma nessuno è figlio di nessuno e la tecnica che uso da sempre l’ho forse appresa da Tiziano e Renoir, con i loro giochi di trasparenze. In effetti anche io spargo vari colori uno sopra l’altro, per ottenere delle particolari luminosità e sovrapposizioni di colore».
Non si potrebbe dir meglio. Il vero pittore non si limita a dipingere, non ritrae, non rispecchia, non imita la natura. La rivive, la trasforma, la reinventa, la trasfigura. Il vero pittore è il testimone, qui e adesso, di una realtà trascendente, che l’uomo comune non vede, ma di cui preserva un’incantevole nostalgia. Il vero pittore è dunque un testimone, ma anche un ricreatore. Rivela ciò che sta dietro l’apparente insignificanza del quotidiano. Ci richiama ad un significato più profondo dell’immediatamente osservabile, dell’elementare percepibile. Tutto ciò che vediamo e tocchiamo è solo una similitudine, un frammento di essenziali verità nascoste. Il pittore ci aiuta, ci costringe a risalire dal frammento alla totalità. Coglie, nel frammento, la verità globale, il significato complessivo di una situazione umana.
Nella sua lunga, sofferta esperienza e attività di pittore, Eva Fischer incarna questa straordinaria missione. Richiama la funzione sociale dell’utopia e lavora contro la tentazione di adagiarsi ed esaurirsi nell’immediato, nell’opaca datità del presente come se costituisse l’esaurimento del vivente. Lavora, dipinge, testimonia contro la subdola, insidiosa tentazione dell’oblio. È ricreatrice e nello stesso tempo è la severa custode della memoria, dai mercatini di Trastevere ai campi della Shoah. Ci ricorda che non si dà assoluzione plenaria garantita e che non sono disponibili facili alibi. Non siamo nulla in senso assoluto. Siamo solo ciò che siamo stati; ciò che ricordiamo di essere stati. Siamo memorie incarnate, che attendono di diventare memorie consapevoli. Eva Fischer è la nostra impareggiabile compagna di viaggio e nello stesso tempo la testimone attenta delle tragedie e dei non molti apporti positivi del secolo ventesimo. In una società sempre più totalmente amministrata che rischia una generale, diffusa ossificazione burocratica, la pittura di Eva Fischer fa rivivere il gusto della contemplazione quieta, la sovrana involontarietà del pensiero, la ricchezza interiore del comportamento non utilitario.
Ma è una pittura, quella di Eva Fischer, che va oltre e non si accontenta di estetizzare, reinventandolo, il quotidiano. Se si arrestasse a questo limite, già di per sé rappresenterebbe un notevole traguardo., la vittoria – intuitiva, artistica – su ciò che troppo corrivamente e troppo spesso viene descritto e rappresentato come la «banalità» del quotidiano. Si potrebbe allora parlare, legittimamente, di un realismo onirico, dai mercatini locali e dalle barche tirate a secco all’operaio edile che consuma la sua magra colazione seduto di sbieco sui muri che viene costruendo. Nella pittura di Eva Fischer questo momento c’è ed è meraviglioso. Induce nell’osservatore il senso di un’armonia cosmica in cui ciascuno, ogni attività umana, dalla più umile alla più prestigiosa, ha il suo ruolo, gioca la sua parte, si inserisce come un tassello nel quadro generale del mosaico dell’universo. Dobbiamo a Eva Fischer gratitudine per averci aiutato a recuperare questo senso straordinario della vita ordinaria.
Ma c’è di più. Il realismo onirico, che va oltre la banalità per scoprirne le radici profonde, non nega né occulta i problemi tragici che hanno insanguinato il Novecento e che ancora illuminano di bagliori sinistri i primi anni del secolo Ventunesimo. La serie dei quadri dedicati alla Shoah è in proposito una verifica severa e persuasiva. È incredibile come il pittore riesca a vedere più a fondo dell’analista sociale o dello storico specializzato. Qui non si nota nulla di truculento né di emotivamente straziante. Non c’è nulla di sovraesposto né di enfatico. Eva Fischer ha colpito l’essenza del fenomeno che, alla metà del secolo Ventesimo, nel cuore di un’Europa che si riteneva ormai sicuramente ancorata ai valori liberaldemocratici e alla razionalità più raffinata, la certezza filosofica, divenuta modo generalizzato di vita, doveva rivelarsi coma una tragica regressione verso i tempi delle barbarie più efferate. Ma ecco l’apporto originale di Eva Fischer. Là dove storici insigni e analisti provetti, da Ernst Nolte a Arno Mayer, semplicemente ritengono che in fondo, dal punto di vista storico, non si dava nulla di nuovo e che il nazismo di Hitler e gli stermini da lui voluti già avevano precedenti in Attila, Gengis Khan e in altri famigerati «nemici del genere umano», l’artista vede più lontano e più a fondo. Nei suoi quadri si coglie l’aspetto originale della Shoah, lo sterminio si presenta come una sinistra burocrazia del delitto, con tanto di registri contabili e organizzazione scientifica. In questa prospettiva, l’opera artistica di Eva Fischer approda alla testimonianza storica, nello stesso tempo originale e suggestiva. Impegno espressivo e tensione morale si alleano in lei e ne fanno una testimone in prima persona di inestimabile valore”.
Franco Ferrarotti
Nella fotografia Eva Fischer, Franco Ferrarotti e la moglie